La gente non ci rispetta più. Violenza e aggressioni in ambito sanitario.
Maria lavora in Pronto soccorso da moltissimi anni.
Ha iniziato appena finita la Scuola infermieri nel 1990 ed ora ha deciso di farsi spostare in un altro servizio perchè non ne può più. Mi dice che la gente è diventata maleducata e che non ha più rispetto per gli operatori, che non ha più fiducia nel personale e nel sistema sanitario, in generale. Mi riporta anche fatti personali di aggressioni verbali e che per questo non ha più voglia di lavorare: ormai è completamente demotivata, e spaventata. Si rivolge a me, infatti, per un problema di Burnout.
Oggi in effetti nei reparti ospedalieri, nelle strutture e sul territorio, assistiamo ad una situazione di carenza di personale e disorganizzazione che spesso esasperano il rapporto tra operatori ed utenti. Lo sfociare degli atti di violenza ormai sono diventati consueti.
La risposta inconscia del personale sanitario a questo caos organizzativo, finora è stata nel verso di un sempre maggior tecnicismo. Ci si nasconde dietro ad atti medici fin troppo asettici per mascherare il purtroppo frequente Burnout.
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Chi lavora nei servizi vive difficoltà di gestione della realtà multidisciplinari di assistenza e cura, con frequente scaricabarile da parte delle Amministrazioni, che negli anni sono state centralizzate e sono lontane dai veri problemi legati all’assistenza. L’imperante scetticismo diventa sempre più spesso questione assicurativa e legale invece che etica e deontologia. Nei gruppi infermieristici presenti sui social la discussione verte più tristemente su questioni economiche e contrattuali, volte alla disperata ricerca di un riconoscimento, almeno economico, della categoria. Come sarebbe invece, se fossero su questioni di carattere relazionale, testimonianze di storie umane vissute in reparto, sul cosa succede dopo?
E non solo a loro, i pazienti. Ma anche a noi stessi.
La violenza riguarda noi come operatori sanitari.
Come sanitari impegnati a fronteggiare tutte le carenze di un sistema che effettivamente fa acqua da tutte le parti, ma nel quale ognuno può mettere del suo per affossare oppure per riscattare.
E la violenza riguarda, ancora e sempre, noi come pazienti, utenti, clienti
Di oggi o di un futuro, che hanno diritto di ricevere le cure che reputano adeguate alla propria percezione di benessere. Ma che devono anche essere consapevoli dei ruoli e rispettare i limiti. Non soltanto quelli di una divisa, ma di una formazione basata su evidenze scientifiche, esperienza e competenza.
Perché non è che leggendo su internet che i vaccini fanno male, posso pensare di discuterne con chi ha studiato per prepararsi professionalmente a rispondere. Perché non posso pretendere, attraverso una conoscenza sommaria acquisita sui social, senza alcuna esperienza professionale, di avere una visione globale. La visione olistica appunto e multiforme della salute in cui ogni essere umano è inserito, a seconda dell’età, sesso, stile di vita, ecc. D’altra parte è anche vero che chi ha la competenza professionale di rispondere ha il dovere di ascoltare, documentarsi ed aggiornarsi. E anche di chiedersi da cosa nasce questo sospetto nei confronti di tutti i curanti, in generale.
Se come categoria non siamo più degni di fiducia a prescindere, per quanto possiamo esserne addolorati, questa è anche una nostra responsabilità attuale. E’ quello che ci troviamo ad affrontare Qui e Ora, indipendentemente dal fatto che non è stata colpa nostra essere arrivati a questo punto. Per cui, finito di lamentarci e inveire (ne abbiamo il sacrosanto diritto, s’intende!), visto che abbiamo gli strumenti e il ruolo istituzionale per farlo, dobbiamo fermarci noi per primi. Per cercare di capire. E piuttosto che buttare la colpa su qualcun’altro (ma non perchè siamo buoni, generosi e masochisti, ma perchè se è difficile capire noi stessi quando lo vogliamo fare, figuriamoci gli altri!) proviamo almeno a comprendere cosa possiamo fare.
Forse potremmo semplicemente scoprire che la differenza si chiama COMPASSIONE.
Cosa è la compassione?
La compassione, quando è sentita e non è solo pena per qualcosa che non mi riguarda, ma è un sentimento profondo che ci mette in condizioni di sperimentare una vera empatia con gli altri.
Compassione quindi per gli altri, ma anche per me.
Questo è un sentire che l’altro può recepire e a cui difficilmente reagirà con violenza, rabbia, incomprensione. E’ un sentimento che ci fa vedere l’altro come un essere umano spaventato, dolente come un animale ferito, che va trattato con delicatezza, amorevolezza e pazienza a prescindere dalla sua ignoranza, dalla sua reazione inconsapevole aggressiva. E che ci permette di sentirci vicini a lui perché anche noi, al di là del nostro ruolo di operatori, siamo umani. E per esserlo non abbiamo bisogno di un’altro master oppure di uno stipendio più alto. Certo che potrebbe aiutarci un riconoscimento economico dignitoso. Ma quello che intendo dire è che usare delle tecniche per essere più in contatto con i pazienti ci arricchirebbe a prescindere da tutto ciò. Perché essere infermieri olistici vuole dire prima di tutto ricordarci di chi siamo noi, cosa sentiamo quando ci relazioniamo con i pazienti, cosa succede al nostro corpo, alla nostra mente e al nostro cuore.
Cosa significa essere un infermiere olistico? Ci vuole coraggio.
Questo è ciò che è successo a Maria dopo aver iniziato un percorso con noi: ha ripensato alla sua professione con un’ottica differente e ha incominciato ad ammettere la sua umanità, la sua paura e la sua difficoltà.
A sè stessa, prima di tutto.
Per un infermiere, essere olistico significa essenzialmente questo: ritornare a sè.
Le TECNICHE che vengono definite propriamente OLISTICHE ci aiutano a facilitare e generare in noi quella compassione in noi e quella empatia, che sono i veri fondamenti della guarigione di un paziente: la fiducia in noi.
Fiducia nel personale sanitario.
Nel personale, nella terapia e in un sistema, che generando a loro volta guarigione, portano alla nostra soddisfazione intrinseca, come operatori. Allora sì, che ci sentiamo riconosciuti.
La sfiducia al contrario genera violenza, mancanza di rispetto e ignoranza. Ma non possiamo pretendere che la fiducia sorga spontaneamente in chi ha meno consapevolezza: i pazienti. O magari attraverso una legislazione più restrittiva o la militarizzazione dei servizi. I primi responsabili per fortuna, siamo noi !
Con EMPATIA e con il supporto di American Holistic Nurses Association ci stiamo provando a costruire tutto questo.
Come infermiera oggi e come paziente un domani, mi aspetto di incontrare sempre una persona dentro ad un camice. E di poter con essa costruire un rapporto, che prima ancora di essere professionale, possa essere umano.
Silvia Oggioni è infermiera olistica di famiglia e comunità, geriatria, counselor olistico professionale, è presidente dal 2015 dell’Associazione EMPATIA e Chapter Leader di American Nurses Association ITALIA
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