Violenza in psichiatria. L’intervista di una collega.

L’aggressione culminata con la morte della collega psichiatra a Pisa, ci ha toccati tutti. Profondamente.
Come operatore sanitario, ogni giorno ormai vengo a conoscenza di un atto di violenza, tanto che la mia prima reazione istintiva, nel momento dell’accaduto, quando ancora non si aveva una chiarezza della prognosi, è stata “L’ennesima, cosa c’è di nuovo?”. Immediatamente dopo aver scritto questa frase in risposta al messaggio di WhatsApp, mi sono resa conto di quanto ormai questa situazione di violenza sia diventata così comune, che per sopravvivere tutti noi sanitari ne rimuoviamo la parte emotiva. Lo facciamo per allontanare la paura del rischio concreto, e ci raccontiamo: “a me non succede nulla.”.
Ma di nuovo, come sappiamo, questa volta c’è stata l’estrema, sciagurata, conseguenza.
Come infermieri olistici siamo costantemente impegnati nell’esercizio di auto-riflessione, che è uno dei cinque valori fondamentali riportati sullo “Scope and Standards of Holistic Nursing”. L’auto-riflessione è quella funzione cognitiva che ci permette di dare un significato a quanto viviamo, portando consapevolezza alle nostre sensazioni, emozioni e pensieri, e che ci fa cogliere da ogni esperienza l’opportunità di ricevere, riconoscere, accettare e trasformare.
Mi sono quindi sentita in dovere di parlare con una cara collega, perchè mi aiutasse a guardare con più attenzione e verità a cosa significhi lavorare ogni giorno in un reparto di Psichiatria, a stretto contatto con la violenza della follia.
Vi riporto quanto emerso, perchè vi possa rappresentare uno stimolo per la riflessione corale nei diversi gruppi attivi della nostra Associazione.
“Ciao, posso chiederti di esprimere il tuo pensiero riguardo la tragedia accaduta alla collega psichiatra a Pisa?”.
“E’ impossibile trovare parole giuste, in questi casi. Innanzitutto, mi associo al dolore della famiglia, degli amici e delle professioni sanitarie tutte. E’ un evento assurdo e doloroso, soprattutto se si è convinti, almeno in parte, che potesse essere evitato.
D’impeto, mi viene da dire che ci muoviamo da decenni verso una psichiatria nuova, aggiornata, contemporanea, ma nella pratica spesso finiamo per rimanere ancorati a modelli passati. È una generalizzazione ovviamente, ma siamo inconsapevolmente arrivati al polo opposto: abbiamo stigmatizzato tutto, sotto nuove forme. Ed oltre a “marchiare” i pazienti, abbiamo aggiunto anche i professionisti della salute mentale al gruppo degli isolati, dei reietti, della “serie B”, e questi sono gli sfortunati esiti. In una sanità in crisi ed una società oberata, tutti corriamo e puntiamo a salvare il salvabile, o almeno ciò che per noi è importante, e difficilmente gli ultimi sono una priorità. In un panorama simile, anche il sentore di un rischio evitabile, che sicuramente qualcuno avrà percepito, passa in secondo piano, inespresso ed ammutolito dalle continue vere o presunte “urgenze”, e gli eventi fanno il loro corso.“
“Credi che un rischio così elevato sia comune nei reparti di psichiatria?”
“Credo che non dovrebbe assolutamente esserlo, ma che sfortunatamente spesso lo è. In psichiatria il rischio di violenza esiste e non lo si può ignorare. Abbiamo a che fare con la fragilità estrema della persona, con i suoi demoni, e con le debolezze intrinseche dell’essere umano, comprese le nostre. Però questo non può assolutamente essere usato come un alibi per deresponsabilizzarci, pensando che il problema sia connotato e irrisolvibile, perché non è così, le soluzioni esistono. Pensare che la violenza sia normale ci porta a tollerarla, e così facendo la minimizziamo fino ad accettarla, finché non si concretizza nel peggiore dei modi – come in questo caso –. E quando ormai si arriva a questi estremi, ogni intervento, anche guidato dalla più nobile delle intenzioni, è semplicemente inutile.
“Cosa pensi della persona che ha compiuto un atto così grave?
“Penso che è un pover’uomo, perché è un malato che, in una certa misura, è stato abbandonato dal sistema alla sua stessa malattia. Ciò non toglie né aggiunge nulla alla gravità dell’evento, ma credo che dovremmo riflettere su questo. In una società di diritto, in cui non ci occupiamo di ciò che è “altro” da noi, inclusi i malati “organici” e cronici, figuriamoci se possiamo occuparci davvero dei malati mentali, ultimi tra gli ultimi. E se questo tipo di malati è anche un po’ criminale, disinteressarsi e stigmatizzarlo è ancora più facile.
“Quindi secondo te, i malati psichiatrici sono vittime?”
“Penso che ci siano svariate vittime. In primis, ovviamente, la collega che credeva in questo lavoro ed è morta nell’atto di svolgerlo, indubbiamente al meglio delle possibilità. In secondo luogo questo malato – perché è prima di tutto un malato – che non è stato evidentemente sostenuto dal sistema nel modo in cui ne aveva bisogno. Ed in ultimo noi tutti, perché è importante ricordare che questo sarebbe potuto capitare a tutti, in uno od entrambi gli sfortunati ruoli.
“E quindi di chi è la responsabilità, secondo te?”
Siamo tutti responsabili, perché qualcuno tra i familiari, gli amici, i colleghi, avrà avuto il sentore che qualcosa di simile sarebbe potuto succedere, ma avrà anche pensato che dirlo fosse inutile, e se anche l’avrà detto non sarà stato preso abbastanza sul serio. D’altronde, come ti ho detto, si ha a che fare quotidianamente con la violenza, e spesso non vengono forniti gli strumenti per gestirla al meglio. Il risultato è adottare rimedi momentanei in autonomia: astenersi dal lavoro se il paziente ti stalkerizza, affidarlo (scaricarlo) unidirezionalmente ad un altro collega se critico, contenerlo fisicamente se di complessa gestione. Tuttavia, queste soluzioni sono solo toppe in un sistema fallace, che finiscono per peggiorare il problema. Sarebbe necessario adottare cambiamenti radicali: incrementare le misure di sicurezza, riorganizzare i servizi e le strutture, investire in assunzioni e formazione del personale. Il resto, come le tecniche di descalation e la comunicazione efficace, dovrebbe essere un prerequisito dell’organizzazione, ma non può rappresentare l’unico pilastro su cui si possa fare affidamento.
“La situazione delle aggressioni è purtroppo una costante nella sanità di questi tempi. Pensi che questo episodio sia riconducibile a questo fenomeno?”
“In parte sì, ma in questo caso c’è un elemento non trascurabile, ovvero che l’aggressione sia avvenuta nell’ambito della salute mentale e da parte di un ex paziente. Questo dovrebbe portarci a riflettere sull’entità del rischio in questo contesto, che è in grado di arrivare ad intaccare non solo la sfera lavorativa, ma anche quella privata.
La psichiatria è stata sempre la cenerentola della sanità, soprattutto nella visione manicomiale, la cui tradizione si trascina ancora oggi. Ma in uno scenario in evoluzione, in una sanità mentale che desidera essere diversa, che tende al cambiamento, anche le nostre strategie per affrontare e gestire le criticità devono cambiare. Altrimenti continueremo a lasciare in balia di sé stessi tanto i pazienti quanto il personale. Che restino immersi nel loro micro-universo, che preferiamo guardare da lontano senza immergerci oltre la superficie, forse per paura di rimanerne invischiati.
“Secondo te cosa succederà adesso?”
“Spero che nella sua tragicità, questo evento possa avere almeno un esito positivo: portarci a riflettere sulla questione. Sfortunatamente però credo che, passato il momento di cordoglio e delle celebrazioni ufficiali, non accadrà nulla di significativo. Non è la prima volta che si assiste ad episodi analoghi: qualche tempo fa un altro psichiatra è stato aggredito, ed è di pochi mesi fa la notizia di un paziente che ha aggredito il padre, uccidendolo.
Purtroppo il cambiamento tarda ad arrivare: è costoso, complesso, impegnativo, richiede tempo ed energie. Ma se riusciamo a comprendere l’entità del problema, le sue ricadute, il dolore che può derivarne, se ammettiamo che possiamo fare molto meglio di così, forse capiremo anche che una trasformazione è indispensabile, e non può aspettare. Altrimenti continueremo ad essere disumani, dando per scontato che i pazienti psichiatrici non possano essere altro che aggressivi, che i professionisti della salute mentale siano poco più che guardiani, e che la violenza in psichiatria sia la normalità.
L’intento di questo contributo non è teso a dimostrare null’altro, al di fuori del grande rispetto e dell’amore che, nonostante tutto, continua a permeare l’intervento professionale di chi lavora nel settore psichiatrico. Ed è proprio in nome di questo amore che, come associazione, chiediamo alle istituzioni di rispondere concretamente ai professionisti impegnati in una relazione così delicata, perchè tutti, ma i decisori in particolare, hanno il dovere di proteggere e supportare la fragilità e la disabilità mentale.
Silvia Oggioni
Presidente AHNA ITALIA
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